Narrano i cantastorie calabresi che ci fu un tempo remoto
in cui la vite era una semplice pianta ornamentale: non
produceva né fiori né tanto meno frutti.
Venne la primavera e il contadino decise di tagliarla:
«Questa pianta dà ombra ai seminati» disse
«la ridurrò più piccola che sia
possibile».
Detto fatto: il contadino la potò così
energicamente che della verde pianta non rimasero che pochi
rami nudi e corti.
La vite pianse e un usignolo ebbe pietà di lei:
«Non piangere» disse «io canterò per
te, e le stelle si muoveranno a compassione».
Volò sui poveri rami tronchi, vi si afferrò
con le zampette e, giunta la notte, cominciò a
cantare tanto dolcemente che la vite si sentì via via
rinascere.
Per dieci notti, le note trillanti salirono verso le stelle,
finché esse si commossero e fecero discendere un po'
della loro forza sulla povera pianta mutilata.
Allora la vite sentì scorrere in sé una linfa
nuova; i suoi nodi si gonfiarono, le sue gemme si aprirono.
I primi pàmpini verdi fremettero alla brezza, e tenui
riccioli verdi, i viticci, si allungarono per avvolgersi
come una delicata carezza intorno alle zampine
dell'uccellino.
Quando l'usignolo volò via, già gli acini del
primo racimolo cominciavano a dorarsi alla luce
dell'alba.
La vite era diventata una pianta fruttifera. E che pianta!
Il suo frutto possedeva la forza delle stelle, la dolcezza
del canto dell'usignolo, la luminosa letizia delle notti
estive.
Se andrete in Calabria, vedrete queste piante: ceppo basso
con grossi tralci aggrovigliati a fior di terra, tralci
ricchi di verdi pàmpini.
LUIS SCHENK 2000/2001
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